La Parola e il Silenzio.

La Parola e il Silenzio.

di Jo March

Sgambettava appena, ma già sapeva parlare, non chiaramente, tuttavia esprimeva, aiutandosi con gesti e smorfiette, i suoi bisogni con atteggiamenti decisi. I monaci del convento lo trovarono sulla soglia, avvolto in pannicelli, un mattino d’inverno. In verità, a fare quella scoperta fu frate Vincenzo che, preso da meraviglia, si vide strattonato per la tonaca da quel bimbetto che cercava di saltargli in braccio chiamandolo: “Mamma.” Per fortuna non papà, pensò il monaco; chissà cosa avrebbero pensato i suoi confratelli.

Con un misto di gioia e confusione frate Vincenzo strinse a sé il piccolo e rientrò chiudendosi dietro il portone. Per un attimo rimase impalato, con gli occhi che vagavano attorno in un vortice di pensieri, poi si avviò a passo svelto per il corridoio chiamando a gran voce i confratelli.

L’accaduto portò grande scompiglio nel convento, tutti si chiedevano che fare di quel piccolino e, quando il Priore gli domandò chi lo avesse lasciato alla porta del convento, il bimbo con voce sicura rispose: “Il signore.”, volendo indicare l’uomo che lo aveva abbandonato, un coro si levò dal gruppo raccolto dei monaci che intesero quel signore come la “Divina Provvidenza.”.

Il bimbo fu affidato alle cure di frate Vincenzo e, ad ogni buon conto, non sapendo niente di lui, lo battezzarono e, per volontà del Priore, gli fu dato nome Donato. Frate Vincenzo gli spiegò che non era lui la sua mamma, ma la signora che, nel grande quadro posto su un altare della cappella, teneva in braccio Gesù bambino.

Donato fu vestito come un fraticello, imparò a leggere, a scrivere, a recitare le orazioni, fu sempre allegro e gentile, ma la disciplina proprio non era il suo forte. Correva per il chiostro con la tonaca al vento, cantava a squarciagola gli inni sacri, dimenticava di flettersi passando davanti al crocifisso e accampava scuse per ogni piccola disobbedienza all’ordine. I discorsi che pronunciava in sua difesa erano così convincenti che alla fine, tutto gli era perdonato perché era un bambino. Bisogna dire che il suo punto di forza erano le parole.

Divenuto un giovanetto, Donato fu chiamato dal Priore, il quale gli disse che oramai era quasi un uomo e che, non essendo un monaco, non poteva più rimanere nel convento: insomma era ora che lasciasse la tonaca e andasse per il mondo.

Il mondo Donato l’aveva visto, quando con frate Vincenzo scendeva in paese per raccogliere le elemosine o per vendere le erbe mediche dell’orto. Gli era anche piaciuto vedere tutto quel movimento di gente che andava e veniva e si dava spintoni, sentire quel rincorrersi di voci, quel tramestio di passi, ma la sua gioia era tornare al convento, con le gote arrossate per la corsa, stretto alla mano del monaco, incantato dai colori del tramonto, felice di esistere.

Il discorso fatto dal priore aveva rattristato Donato, che contrariamente al solito non aveva trovato parole per ribattere ed era andato via a testa bassa col cuore scuro, ma la sera, quando tutti i fratelli erano riuniti nel refettorio e stavano per brandir le forchette, Donato si alzo in piedi, chiese al priore il permesso di parlare e poi rivolto a tutti loro cominciò a parlare. Parlò a lungo, cercando le parole più belle e commoventi per chiedere con umiltà di poter restare nel convento perché quella era la sua casa, loro la sua famiglia, l’ordine monastico la sua aspirazione.

Il priore, commosso dalle parole di Donato disse che se i fratelli erano tutti d’accordo lo avrebbe accettato nel convento, ma solo dopo averlo messo alla prova, doveva dimostrare di saper dominare le sue debolezze e reprimere i suoi impulsi.

Nel convento i monaci osservavano la regola del silenzio. Nel chiostro, nel refettorio, persino nell’oratorio, dove si dovrebbero innalzare lodi a Dio, si pregava in silenzio: neanche un mormorio nel chiostro deserto. La parola era bandita per dieci giorni.

Quello che, più d’ogni altro, soffriva quella regola, era Donato, novizio, entrato da poco nella Comunità. La sua voce era sempre sul punto di scivolare fuori dal labbro per proferire parole gentili, ma si spegneva in un sorriso di scusa, agli sguardi di rimprovero dei confratelli che, con passo lento e solenne, le mani nascoste nelle ampie maniche della tonaca, lo incrociavano lungo i corridoi.

Al giovane era stato dato il compito di spegnere le candele nella cappella, dopo le orazioni del tramonto ed egli, immancabilmente e con grande solerzia, attendeva al dovere.

Una sera nel tentativo di spegnere un moccolo posto in alto, inciampò nella sua stessa tonaca e cadde, rovesciando la candela accesa sui paramenti del Priore, che in un attimo presero fuoco. Tentò con le mani di soffocare le fiamme, ma riuscì solo a scottarsi. In mancanza di altri mezzi idonei a domare l’incendio, si volse verso l’acquasantiera, ma non era certo di non commettere un sacrilegio usandola per scopi profani, pensò di gridare per chiedere aiuto, ma non poteva infrangere la regola. Così si mise a correre lungo i corridoi, tempestando di pugni le porte delle celle in cui i monaci si erano ritirati per la notte e producendo un gran baccano. A quel bailamme tutti si ritrovarono fuori e, con sguardi e gesti, chiedevano al novizio ragione di tanta confusione. Egli sempre in silenzio cercava di spiegare la situazione ma non ne veniva a capo. Nessuno riusciva a comprendere cosa volesse. Sempre più disperato, in lacrime pestava i piedi, si strappava i capelli e si stracciava le vesti. A quel punto il Priore estremamente spazientito urlò: “Ma parla per Dio!”.

La parola, lungamente trattenuta, esplose allora dalle labbra del fraticello: “Il fuoco!”, gridò. Fu lo sparo che diede il via ad un’incredibile baraonda: tutti i monaci ad alta voce, insieme, innalzarono preghiere, ripiegarono le tonache e diedero mano ai secchi, finché l’incendio non fu domato.

Interrotto il silenzio fu la parola a salvare il convento e i frati tutti.

Per volontà del Priore venne aggiunta una postilla alla regola del silenzio: SALVO ECCEZIONI.