Il geometra F.P. Scalisi

Il geometra F.P. Scalisi

di Jo March

Il palazzo municipale di Blandano era il posto migliore dove, chi voleva garantirsi giorni sereni e sicuro avvenire, poteva farlo con grande facilità.

No, non nascondendosi ma, rendendosi accettabile agli altri, come parte dell’arredo, confuso nella tappezzeria, protetto da ogni disagio, da ogni rischio, che gli potesse venire dal prendere partito per qualcuno o per qualcosa.

E lì, al quarto piano, negli ultimi trent’anni, precisamente nell’Ufficio Tecnico, s’era rintanato il geometra F.P. Scalisi, impiegato, con la mansione di vice del dirigente. Tenere un basso profilo era la sua massima aspirazione, confermata dal fatto che nessuno sapeva, né aveva mai chiesto, cosa significassero quelle F.P. davanti al cognome, sul cartellino appuntato sul risvolto della sua giacca. Diventare geometra non era stata una sua scelta ma, piuttosto, una via facile, indicatale dal padre, per sperare in un dignitoso lavoro nella Pubblica Amministrazione; un posto tranquillo, adatto all’indole sua, che lo tenesse al riparo dal prendere decisioni personali, assumere responsabilità o, magari, correre il rischio di esprimere opinioni diverse da chi deteneva il potere.

 Il nostro geometra, non bello, non ricco, non particolarmente brillante e per nulla coraggioso, era il prototipo della mediocrità. Il grigio era il colore che lo caratterizzava, un grigio polvere chiaro, scialbo, così nei capelli incolti, come negli occhi circospetti, volti a cogliere ogni possibile ostacolo al suo tran, tran quotidiano e ad evitarlo. Dimesso e compiacente coi potenti, severo e inflessibile con gli umili.

Niente decisioni, niente opinioni, quindi, niente paure!

Ormai prossimo alla pensione, si crogiolava nel suo ‘non lavoro’: si asteneva da straordinari, archiviava pratiche e faldoni di richieste e autorizzazioni obsolete, prolungava le pause alla macchinetta del caffè, indulgendo in chiacchiere futili e innocenti pettegolezzi, limitandosi al rispetto assoluto dell’orario di uscita. Nessuno poteva muovergli un rimprovero sul suo operato,  ché ben poco o quasi nulla operava. Seduto alla scrivania, nel suo ufficio, confortato dal soffio fresco del condizionatore, il geometra F.P. Scalisi si concedeva una pausa dal lavoro. Stava completando un difficile cruciverba, mancava solo l’ultima definizione: famoso filosofo greco, otto lettere. Si aiutò con gli incroci e, Carneade, venne fuori.

 “Carneade? - si chiese dubbioso- Chi era costui?” Non aveva fatto studi classici e ben poco sapeva di filosofia, ma il nome non gli era nuovo. Stette un po’ soprappensiero, a cercar di risolvere il dubbio, poi guardò l’orologio: le diciotto. Pose il giornale nel cassetto e si apprestò a lasciare l’ufficio.

***

La sera del giovedì precedente il Ferragosto, l’ingegner Bonanno, dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune, capo del geometra Scalisi, lasciato l’ufficio, si dirigeva verso la sua abitazione, col cuore pesante per le difficoltà sul lavoro. Dopo le ferie estive, avrebbe presentato al Consiglio Comunale, il nuovo piano regolatore e si aspettava ostacoli e difficoltà. Raggiunta la piazza e girato l’angolo di casa, l’uomo venne colto da una rosa di pallettoni alle gambe, in autentico stile mafioso.

Il poveretto, terrorizzato e sanguinante, fu trasportato in ospedale e dichiarò agli inquirenti di non avere nemici, né di aver ricevuto intimidazioni riguardanti il suo lavoro. Il caso, dopo brevi indagini, fu archiviato dal procuratore, come reato a carico d’ignoti, per cause ignote. Il fatto, che il dirigente si occupasse, in quei giorni, di far approvare il nuovo piano regolatore, fu visto come evento marginale, non connesso all’attentato.

Il mattino seguente, al quarto piano del Palazzo Comunale, presso il distributore del caffè, fu ressa. Nessuno sapeva niente sul motivo dell’agguato al dirigente ma, tutti, con un alzare di sopracciglio, con un sorriso saputello, con un dondolio del capo, asserivano tacitamente di saperne molto.

Il geometra Scalisi si dibatteva tra una ragione e l’altra, non volendo far torto né alla vittima, che pure, diceva, se l’era cercata, né al colpevole, che era stato, forse, eccessivo nella reazione.

Riusciva così a stare in sella, senza speroni.

Il sindaco si prodigò a tessere le lodi dell’ingegnere definendolo: “Evvero, colonna portante dell’apparato comunale” non smentendo, tuttavia, che il funzionario, malgrado i suoi settant’anni passati, amava ancora molto le donne: “Storie di corna e di cornuti, evvero”, commentò, lisciandosi malizioso i baffetti da ‘sciupafemmine’.

Un mattino, passato Ferragosto, il geometra Scalisi se ne veniva lungo il corridoio del quarto piano, per prender posto al tavolo del suo ‘non lavoro’. Procedeva, passo dopo passo, dando un’occhiata al giornale, che aveva comprato prima di salire. Si fermava, ogni tanto, per voltare pagina.

Erano passate alcune settimane dall’aggressione all’ingegnere Bonanno e, nel passare davanti al suo ufficio, sentì una sorta di funesta premonizione: “Minchia – borbottò-, non sarà che il capo s’è aggravato? Doveva tornare ieri, ma non s’è visto!” Si fermò impensierito, quando una voce, dal fondo del corridoio, lo fece sobbalzare: “Dottore Scalisi, il sindaco lo convoca, per le dieci, nel suo ufficio”. Dottore? Non era dottore lui, non era laureato. Il titolo veniva attribuito, anche in assenza di merito, solo a chi nel municipio occupava posti di rilievo.

L’ora, che trascorse in attesa, fu un supplizio. Lo turbavano, tanto più, i sorrisi cordiali dei colleghi, inusuali, e il chiacchiericcio incomprensibile negli angoli più lontani dal suo tavolo. Qualcosa era venuto a turbare lo status quo, del quotidiano vivere del geometra F.P.

***

Il Palazzo del Municipio sorgeva nella parte più elevata del paese; costruito in epoca medievale, anche se più volte rimaneggiato, conservava nell’aspetto un ché d’ intimidatorio, d’incomprensibile, o almeno così era percepito dagli abitanti del posto.

I quattro piani del palazzo erano un labirinto di corridoi, di stanze, che s’inseguivano, come in un gioco dell’oca, con i torna indietro frustranti e le soste penalizzanti. Il primo piano, con alti soffitti affrescati e tappezzerie alle pareti, era riservato alla rappresentanza, alla sala consiliare e agli uffici dei vari assessori. Man, mano che si saliva, i tetti divenivano più bassi, le stanze più minuscole, i corridoi più oscuri e, ai lati di questi, si aprivano (per modo di dire, in quanto sempre chiuse) le porte dei vari uffici, i servizi igienici e gli archivi.

E fu al primo piano, nella stanza del Sindaco, che il geometra Scalisi bussò, leggero, leggero, sperando quasi che nessuno lo sentisse.

“Venga, venga, carissimo geometra … evvero, si accomodi… evvero”, dietro alla scrivania, circondato da bandiere, sovrastato dal ritratto del Presidente della Repubblica, Totò La Torre, sindaco democraticamente eletto, fece mossa di alzarsi per ricevere F.G. I due uomini, seduti ai lati dello scrittoio, sorrisero beffardi al nuovo venuto. Sembrarono, al geometra, il gatto e la volpe della favola di Pinocchio e, mentre un cappio gli torceva le budella, balbettò: “Po…po…posso?” L’animo gli diceva che un grave disastro stava per abbattersi sulla sua beata tranquillità.

Con le dita intrecciate e i gomiti sulla scrivania, il sindaco prese a parlare: “Lei, caro Scalisi, evvero, come tutti, saprà, che l’ingegnere Bonanno, evvero, ha presentato le sue dimissioni, per motivi di salute, il poveretto”

“No, no, signor sindaco non lo sapevo, ché non mi ingegno in pettegolezzi”

“Lei, egregio geometra, come suo vice, evvero, prenderà in carico gli affari correnti dell’ufficio”, una lama affilata di spavento si piantò nel cuore di F.P: “ Io?” esalò.

“Bene!” prosegui il sindaco, ignorando la domanda del geometra.

“Sa, però sicuramente, evvero, che il dottore aveva lavorato sul piano regolatore del Comune, ed era pronto, evvero, a farlo approvare ma, era tutto sbagliato, evvero”, un pugno assordante calò sul tavolo, facendo sobbalzare il povero F.P.

 “Questo piano regolatore non s’ha da fare, né ora, né mai”.

Suonarono come una minaccia, alle orecchie del geometra, quelle parole e, tali erano, dato il cipiglio minaccioso e il gesto intimidatorio: “Sta a lei e al suo genio, evvero, trovare la soluzione”, concluse il sindaco.

 “Ma, io, veramente non so… non credo”, farfugliò F.P.

“Via, via, non sia modesto, evvero. Le sue capacità, i suoi pregi sono noti. Tutti i suoi colleghi lo confermano, tutti, nessuno escluso!”

“Troppo buoni, ma non credo…” si difese il geometra, e pensava: “Maledetti, vipere, traditori, in pasto all’inferno mi spingono. Ecco, ecco, il riconoscimento per la mia bontà!”

“Non accetto un rifiuto, evvero, caro amico. Non possiamo ignorare l’urgenza di poveri concittadini che agognano costruire un tetto per la loro famiglia, né offendere onesti imprenditori, e fece cenno ai due figuri seduti ai lati del tavolo, privandoli del loro giusto guadagno. M’intende, evvero?” I due lanciarono al geometra sguardi, che erano coltelli.

“Io… io… vedrò, cercherò, però non so niente del documento, il dottore Bonanno non mi aveva informato…” e si asciugava le mani sudate, sgualcendo il bordo della giacca.

“So, caro amico, so. L’ingegnere non l’apprezzava per quanto ella merita ma, ora, tutto è cambiato, e lei riceverà la giusta ricompensa per il suo appoggio”.

Non trovò parole l’infelice F.P. e, mentre un grumo di paura gli chiudeva la gola, chinò il capo.

A quel punto, Totò La Torre s’alzò e andò a stringere la mano del geometra, la trovò sudatissima e si maledisse per il suo spirito democratico.

***

La strada, che percorse per tornare a casa, fu una vera salita al Golgota.

Vi giunse stralunato, devastato nel viso e nell’aspetto da tremori e sudori, da ansie angosciose e, chiusa la porta alle sue spalle, venne meno, e si accasciò lì, dove si trovava.

Il tonfo della caduta allarmò la sorella, Santina, che da quando era rimasta vedova viveva con lui e lo assisteva.

Accorse sollecita: “Bedda Matri, Francesco Paolo che fu? Mali ti senti? Chi hai?”, gridò. Poi lo aiutò a rialzarsi, e insisteva per sapere il motivo di tanta disperazione.

Tra lamenti e pezze fresche sulla fronte, F.P. si riprese e, cedendo alle insistenze della donna, le confidò l’accaduto.

Santina, pur piccola di statura e minuta nell’aspetto, era una femmina di carattere e aveva in cuore tutto il coraggio che mancava al fratello: “E ti scanti?” chiese, mentre il povero F.P. le faceva disperati cenni di abbassar la voce: “Vai da quel mafiosetto del sindaco e gli dici che non ci stai!” esclamò, a muso duro, la donna

“Zitta, zitta, mi vuoi rovinare? Hai sentito che fine ha fatto l’ingegnere?” supplicò a mani giunte il fratello.

“Allora vai dai carabinieri, denunci tutti al procuratore!”

“Al procuratore? Al procuratore, dici? Va, va, fammi il piacere! Ne va della vita, capisci, della vita!” si portò le mani al petto: “Ed io mi sento un vaso di coccio circondato da vasi di ferro”,  gridò disperato.

Il giorno dopo, il medico di famiglia, chiamato da Santina, andò a visitare il geometra; lo trovò prostrato da febbre alta e allucinazioni, consigliò cinque giorni di riposo assoluto e un potente sedativo. In quei cinque giorni, la mano salvifica della ‘Divina Provvidenza in fra gli oppressi’, mossa a compassione, si mise all’opera in favore del derelitto F.P.

***

Era scesa la sera, ma le luci nel palazzo del municipio erano ancora accese. Il Consiglio Comunale era riunito per discutere importanti provvedimenti in favore della cittadinanza o, almeno, di una metà di essa. Nella foga del dibattimento, nessuno dei presenti si accorse, che un gruppo di uomini incappucciati si era introdotto nella sala e, al grido: “Fuoco!” aveva scatenato l’inferno. I colpi sparati indiscriminatamente sui consiglieri e, in primis, sul democraticamente eletto, sindaco Totò La Torre, fecero una strage. Evidentemente, l’altra metà della cittadinanza si era sentita sfavorita dai provvedimenti in approvazione e aveva mostrato il suo dissenso. I giornali parlarono di sei morti e una decina di feriti, più o meno, gravi. Dopo accurate indagini, il procuratore, in conferenza stampa, affermò che trattavasi di un gruppo di facinorosi non identificati, che per motivi sconosciuti, forse ubriachi o drogati, avevano commesso l’increscioso fatto criminale. Dalle indagini non si evinceva alcuna matrice mafiosa.

Il giorno dei funerali solenni delle vittime, tutto il paese era in fermento. La cattedrale era affollata, nei banchi in prima fila i parenti e le personalità, c’erano tutti: don Matteo, il farmacista, don Sarino, il notaio, don Peppino, il comandante dei carabinieri, don Calogero con la coppola in mano e pure il vescovo del capoluogo era presente, addolorato e compunto. Nelle retrovie, tra i rappresentanti del personale del municipio, c’era anche il nostro geometra F.P. Scalisi, ripresosi miracolosamente dalla malattia. Il suo cordoglio contenuto non riusciva a nascondere il profondo sollievo per lo scampato pericolo. Non si parlava più di Piano Regolatore.

Il parroco parlò a lungo dell’incolmabile perdita, elencando meriti e virtù di chi, per la Comunità, si era sacrificato. Poi toccò al vescovo, che promise resurrezione e vita eterna alle povere vittime e, infine, alla moglie del sindaco, che dopo poche parole svenne e fu portata fuori a braccia, dagli operai delle pompe funebri.

Alla fine della cerimonia, sul sagrato, si formarono piccoli gruppi di perditempo a commentare e spettegolare; F.P. passava da un gruppo all’altro e, senza prender partito, affermava giudiziosamente: “Meschinelle le povere vittime e meschinelli gli assassini, che vivranno nel rimorso”.

Così restava in sella senza speroni.