Il maestro spirituale

Il maestro spirituale

di Jo March

Vincenzo Damiani aveva più di settant’anni, alto e magro come un chiodo, ogni giorno portava a passeggio il suo cane, lungo il marciapiedi della via Roma. Il cane era un enorme alano dall’aspetto inquietante, date le sue dimensioni, ma si vedeva che era Vincenzo il capo branco tra i due.

Egli lo teneva al guinzaglio con polso fermo e, con atteggiamento dominatore, dava comandi brevi e secchi, ai quali, il cane obbediva, come ipnotizzato dalla sua voce roca e tagliente.

Si capiva dalla postura eretta, dal passo sicuro, dal volto serio e severo, che Vincenzo era nato per guidare, per condurre, chi lo avesse seguito, verso alti destini. Ma, a guardar bene, si poteva osservare, all’angolo della bocca del cane, un tenue ghigno di derisione, lieve, quasi impercettibile, che tanto, però, faceva riflettere sui reali rapporti tra loro.

Bisogna sapere che, fin da giovanissimo, Vincenzo sentiva una vocazione al misticismo e al paranormale e si era convinto d’essere un Maestro-Guida spirituale, o perlomeno così si definiva, presso i suoi discepoli. Aveva carisma e, con rivelazioni affascinanti, riusciva a tenere avvinti, alle sue pseudo dottrine, gruppi d’individui alla ricerca della propria realizzazione spirituale. Per lo più si trattava di giovani che, inclini all’occultismo e alle pratiche esoteriche, venivano catturati dalle sue profezie mistiche.

Il gruppo si riuniva, nell’Ashram, quasi tutte le sere. Davanti ad un tabellone, con lettere e simboli, guidato da uno spirito disincarnato, il Grande Maestro poneva le mani su di esso e, in un’atmosfera densa d’incenso, rivelava a ognuno le precedenti incarnazioni.

Tutti avevano fatto parte di un antico gruppo di eletti, chiamato a cambiare le sorti dell’umanità e, si erano ritrovati, in questa porzione dello spazio-tempo, per realizzare un non ben definito progetto. Chi era stato faraone, chi sacerdote di un tempio, chi un discepolo di Gesù; mai che tra loro ci fosse stato un contadino, un falegname, uno stalliere, essi erano tutti spiriti eletti, ritrovatisi in questa vita per portare a termine la loro missione.

In quelle riunioni, i suoi occhi, di un bellissimo blu oltremare, saettavano dall’uno all’altro dei presenti, lasciando intendere che Egli era il depositario di conoscenze occulte che, a tempo debito, avrebbe condiviso. Il suo sguardo ammiccante prometteva a ciascuno ciò che essi cercavano. Le donne lo adoravano, gli uomini gli obbedivano. La parte più affascinante delle sue dottrine riguardava la legge del Karma, secondo la quale, tutte le azioni buone o cattive che fossero, non potevano ritenersi merito o colpa ma, necessità di evoluzione spirituale, attraverso esperienze materiali, insomma: fa quello che ti pare, che tanto non paghi pegno.

Ma quelli erano gli anni Settanta, quelli dei guru, dei figli dei fiori, e dei “Sette anni in Tibet”, poi tutto è cambiato, è arrivata la “Milano da bere”. I suoi discepoli si sono svegliati dal sogno e si sono dispersi per le vie del mondo: troppo ardua la via dello spirito, che pretendeva digiuni, studio, lunghe meditazioni, penitenze e, perfino, piccoli oboli, per assicurare le necessità al sedicente maestro-guru. Lui lanciava profezie nefaste a chi si allontanava e minacciava eventi disastrosi a chi dubitava.

Ora, il tempio è vuoto, non più onori e devozione; né incenso brucia al centro dell’Ashram, i canti sacri e i mantra, ripetuti ossessivamente, tacciono e, nel silenzio dell’abbandono, solo lui, il maestro reincarnato siede nella posizione del loto.

Adesso, Vincenzo ha un unico discepolo, il suo cane, al quale parla di dottrine esoteriche, di reincarnazione, di karma da superare. Il cane, si chiama Shiva, come la dea indiana della distruzione, della quale rappresenterebbe l’attuale forma vivente. In piedi, con atteggiamento ieratico, un dito alzato ad ammonire, Vincenzo predica. Shiva lo ascolta, con attenzione, accucciato ai suoi piedi, lo guarda inclinando la testa e drizzando le orecchie. Ma, il massimo della sua devozione, Shiva la manifesta quando, alla fine della preghiera e dell’invocazione triplice dell’ OM, si volge, con occhio adorante, verso la parete, su cui campeggia una foto a dimensioni reali, del maestro Parhamansa Yogananda, ai piedi della quale è posta la scodella del suo pasto.