LA MEMORIA, I RICORDI… E MIO PADRE.

Omaggio a un ottantenne, parte della storia di questo territorio

LA MEMORIA, I RICORDI… E MIO PADRE.

PARTE PRIMA: LA MEMORIA, I RICORDI… E MIO PADRE.

 

Era una di quelle domeniche di luglio che il caldo ti sfianca già dalle prime luci dell’alba. Io e mio marito avevamo deciso di scappare dall’incandescenza della città (Trapani) per trascorrere qualche giorno nella nostra seconda casa a Santa Ninfa, dove il clima, d’estate, risulta comunque più mite. Quella domenica, però faceva caldo anche a Santa Ninfa.

Mio padre aveva chiamato la sera prima e aveva annunciato una sua visita. Sarebbe arrivato il giorno dopo a Santa Ninfa, a pranzo, con la mamma e la lasagna. Nel pomeriggio poi, avrebbe avuto piacere di essere accompagnato al Museo della Memoria di Santa Margherita Belice. Il programma era preciso e definito, senza margine di errore.

Niente di strano, direte voi. Certamente, rispondo io. Se non fosse che nessuno di voi conosce mio padre. Uomo d’altri tempi, cresciuto e temprato negli anni difficili del secondo dopo guerra, ha sempre avuto una sua idea sulle cose. Su tutte le cose. La sua, appunto. Democristiano della prima ora, segretario provinciale della Filca Cisl e sindacalista per scelta, è sempre stato al fianco dei cittadini, in difesa dei più deboli.

Consigliere comunale a Trapani per oltre 20 anni e componente della Giunta come assessore ai Lavori Pubblici del Comune capoluogo mentre i sindaci si susseguivano, negli anni aveva ormai acquisito quel piglio inconfondibile di chi aveva capito come ottenere quello che voleva. E soprattutto, di chi sapeva come raggiungere l’obbiettivo senza nulla chiedere. A nessuno.

E così quella domenica mangiammo la lasagna.

Dopo il caffè e qualche telefonata per sincerarmi che i musei fossero aperti anche in quella domenica pomeriggio di luglio inoltrato, accendemmo l’aria condizionata della station wagon e partimmo alla volta dell’agrigentino.

L’origine di questa storia risale a qualche mese prima, quando un amico aveva chiamato mio padre raccontando di avere visto una foto di Leonardo Barbara il sindacalista (papà appunto) esposta al Museo della memoria. Lui (l’amico) era andato in visita guidata, in autobus, con un gruppo affiatato. Visita che certamente si sarebbe ripetuta da lì a qualche tempo. Si sarebbero risentiti, dunque, per tornare insieme, in quei luoghi della memoria.

I giorni passarono, e con loro le settimane e i mesi. Papà mi raccontava l’aneddoto della telefonata ricevuta dall’amico ogni volta che ci vedevamo. Poi un giorno smise. E dopo un po’ mi chiamò per annunciare che l’indomani sarebbe venuto a pranzo a Santa Ninfa, con la mamma e la lasagna.

Salimmo in macchina e ci avviammo lungo la Statale 188 che dalla valle belicina porta all’agrigentino. Un itinerario impervio e desolato, sotto un sole impietoso e con 40 gradi all’ombra. Almeno l’aria condizionata funzionava!!!

Quello che da lì a qualche anno sarebbe stato nominato Cavalieri della Repubblica dal Presidente Mattarella (Leonardo Barbara, mio padre) appariva fresco come un quarto di pollo. Stava andando dove voleva andare, con qualcun altro che guidava al posto suo (Angelo Termine, mio marito) e l’aria condizionata che mitigava e allietava il suo viaggio. E soprattutto, non aveva chiesto niente a nessuno.

Parlava e ciarlava, raccontava di vecchie storie e aneddoti passati. Roba di quando era piccolo e si mangiava di nascosto… E si raccoglieva il cotone, d’estate, dopo la scuola… O di quando era giovane e sindacalista. E da questa strada ci era passato per raccogliere i dimostranti che la casa dopo il terremoto del ’68 la chiedevano perchè non ce l’avevano più. E certo che gli spettava! Dietro di lui, sul sedile posteriore, sua moglie la compagna di una vita (conosciuta quando lui aveva 21 anni e lei 15) e sua figlia (io).

Arrivammo a Santa Margherita Belice che erano le 5 passate. Le lame del sole ferivano ancora gli occhi e la pelle come allo Zenith e l’umido dell’aria stringeva la gola fino a soffocare. Il museo della memoria era stato facile da trovare: in pieno centro, affacciato sulla piazza principale, alla fine del corso. L'edificio che un tempo era stato il Duomo di Santa Margherita di Belice, gravemente danneggiato durante il terremoto del 1968, fu poi ricostruito in stile e tecniche dell’ultimo millennio: acciaio e vetro a mostrare le meraviglie di un tempo. Più o meno apprezzate, ovviamente. “La chiesa stessa grande e bella, ricordo, in stile Impero con grandi brutti affreschi incastonati tra gli stucchi bianchi del soffitto…". A Giuseppe Tomasi di Lampedusa, così come riportato nel testo “Ricordi d'infanzia”, ad esempio, non deve essere piaciuta granché.

 

LA MEMORIA, I RICORDI… E MIO PADRE.

Ma torniamo a noi.

Più avanti a sinistra del museo e della piazza, un porticato con dei tavolini da caffè con tanto di avventori… di una certa età. Forse un bar, o piuttosto un circolo dei nobili come in uso nelle piccole cittadine di un tempo… Non saprei. In ogni caso, non c’era modo di non notarli: erano gli unici esseri viventi in circolazione alle 5 del pomeriggio di quella domenica rovente di pieno luglio.

Sicuri del fatto nostro, ci dirigemmo spediti all’ingresso dell’edificio. Il presidente della Regione aveva firmato l’ordinanza qualche settimana prima: tutti i musei sarebbero dovuti rimanere aperti le domeniche d’estate per permettere l’ingresso ai turisti.

Dunque, non ci siamo arresi quando, a prima vista, l’ingresso appariva chiuso. Non ci siamo arresi nemmeno quando provammo a spingere i battenti, invano. E non abbiamo arretrato di un passo quando tutti notammo che le luci erano spente.

Ma, iniziammo a dubitare quando, col muso sul vetro a scrutare l’interno, non scorgemmo segni di vita. A quel punto, devo essere onesta, cominciai a sospettare. Mi girai e principiai a indagare i paraggi.  Tornare indietro a mani vuote non era un’ipotesi neanche lontanamente percorribile. Animo dunque, che una soluzione andava trovata!

I ‘giovanotti’ accomodati sulle seggiole sotto il portico, nel frattempo, avevano osservato ogni nostro movimento (eravamo l’attrazione del momento) mentre tra di loro scommettevano su come sarebbe andato a finire l’azzardo di quei forestieri.

Fissai un punto, una figura, uno sguardo e li mi diressi spedita e senza indugio. Col mio vestitino leggero, dalle spalline strette e l’orlo subito sopra il ginocchio, alzai gli occhiali da sole sui capelli e sfoderai il mio miglior sorriso di sempre. Il museo doveva essere aperto, mi ero informata. Avevo bisogno di aiuto perché non potevo fallire davanti alle persone a me più care. E lo chiesi, con garbo e umiltà.

“Mi scusi se la disturbo – dissi all’uomo dai capelli bianchi e il piglio incuriosito sul volto, seduto al tavolo con i suoi amici – ma siamo venuti apposta da Trapani per visitare il museo… Ci avevano detto che lo avremmo trovato aperto, ma non sembra ci sia anima viva dentro”.

Non sembrava sorpreso che avessi scelto proprio lui per chiedere informazioni. Aveva seguito ogni mia mossa da quando ero scesa dall’auto, ed io in qualche maniera a me assolutamente sconosciuta, lo sapevo. “Sinceramente non saprei – rispose schietto di rimando -. Il custode stamattina era lì... Con questo caldo avrà deciso di andarsene al mare, a fare un bagno. Ma vedrà che stasera troverà aperto”.

Fine prima parte
(leggi qui la seconda parte)