La scuola segreta per i nuovi Siciliani

Un altro racconto delle mirabolanti avventure del nostro fenicottero impertinente

La scuola segreta per i nuovi Siciliani

Passeggiavo nella mia Londra a fine primavera, mi stavo organizzando per ritornare a Trapani. Mi ero stancato ed annnoiato e soprattutto abbrutito dal lungo inverno.
La sera prima di partire ero stato a cena da mia mamma, per un suo malessere le sono stato vicino in questo lungo periodo di assenza da Trapani. 
Era molto anziana, acciaccata dai suoi dolori e sebbene non avesse mai perso la sua lucidità, neanche per un secondo nella sua vita, questa stavolta lasciò in me, quando la salutai, una sottile ed acuta sensazione che si insinuava nella parte più profonda e nascosta del mio cuore e, come uno stiletto affilato, affondava sempre di più ogni volta che batteva.
La salutai, l'abbraccia, lei mi sorrise e con la stessa luce negli occhi, come se mi avesse letto nei pensieri, mi disse dolcemente all'orecchio: "do not worry my son, I will always wait for you". Uscii da casa con questa frase e il suo senso intrinseco di tristezza.

L'indomani mattina mi imbarcai sulla Sicilian Airway, mi sedetti vicino all’oblò e dopo decollati vidi Londra diventare sempre più piccola.
Per tutto il volo non vedevo l’ora di arrivare a Trapani, sicuro di trovare qualche novità così da potermi distrarre da questa indefinita sensazione cardiaca ed urente che mi portai da casa di mamma.
Erano sei mesi che mancavo da quell’illuminato angolo di terra ed ero certo matematicamente, quanto impossibile, che non fosse successo niente di nuovo nel frattempo.
Mi appisolai durante il viaggio e come una scia di vapore la sensazione che mi segui da Londra, svanì.

Atterrai a Birgi, scesi dall’aereo e di corsa, entrato in aeroporto, mi misi davanti al nastro dei bagagli ad aspettare la mia valigia.
Passarono dieci minuti che mi parsero una vita. Non si muoveva niente e non c'era nessuno vicino, manco quelli del mio stesso volo.
Pensai "E chi razza di novità è chista? A Trapani?"
In effetti, le altre volte non avevo avuto manco il tempo di scendere dall'aeromobile che già i valiggi giravano sul nastro e aspettavano di essere prese.
E ora, che era successo?
Mi guardai intorno quando ad un certo punto si avvicinò un addetto sulla cui maglietta c'era scritto in bianco "Welcome Tourists Service" e nel mentre pinsai: “Sono salvo” e lui sorridendo: "Benvenuto a Trapani amico mio, che fa' davanti al teppeto?"
Risposi: "Aspetto la mia valigia, sono appena atterrato da Londra".
In quel mentre gli squillò il telefonino e si allontanò ma, pur parlando sottovoce, lo udii. Lui, con un grande sorriso, girandosi verso me, disse all'autore della chiamata: "Voi ridire, cumpa'? C’è un londinese fermo davanti al nastro e pare chi prega pi virire spuntare i valigi..."
L’altro: "Ma quanno mai, chi dici? Lo vedo da quassu' e secondo me l'inglisi pensa di essere Alladin e accussì u vire volare, u tappito, e ci poitta i bagagli..."
E si misero a ridere che la risata si sentì fino a Mozia.
Chiuse la chiamata si ricompose e continuò, avvicinandosi a me col sorrisino che sfumava verso il serioso: “Caro Signore forse non sa che a Birgi oggi c’è un nuovo servizio grazie al quale i bagagli vengono spediti direttamente nel luogo dove si dimora e non c'è più bisogno di aspettare ai “suitcase rollers".
Ero così infastidito dalla sua espressione di arroganza che ci avissi rato una zampata, ma desistetti e gli chiesi a malavoglia : “E come fanno a sapere dove spedirla?"
L’addetto: "Lei è un extracomunitario giusto?"
Risposi: "No, Vengo da Londra"
L'addetto: "Scusi non avete fatto la Brexit? O ancora credete di essere in Europa?"
"Vabbè - aggiunse - le dò una bella notizia fresca fresca: ormai siete extracomunitari e quindi lei ha dovuto comunicare il suo indirizzo di dimora quando ha fatto il check-in"a Londra e dunque, glielo hanno chiesto?"
Risposi di sì e pensai che in effetti non me lo avevano mai chiesto prima d’ora. Adesso ne capii il perché.
 
L’addetto continuò: “Allora? Se n’è reso conto?" Ed esclamò a denti stretti girandosi e con un tono quasi disgustante: "Tutti gli stessi sti immigrati".
Poi continuò: “Comunque a parte la sua chiamiamola distrazione, deve sapere che la vacanza qui a Trapani inizia appena metti i piedi in aeroporto. I turisti liberi e leggeri dai loro bagagli corrono più velocemente verso le innumerevoli attrazioni della provincia”.
Pensai che era veramente antipatico ma u supportai perché mi aspettava Trapani e tutto fra poco sarebbe passato.
 
Lo ringraziai a malincuore, sollevai le spalle con tutto lo sbroglio di stomaco di questo mondo, lo salutai e mi diressi verso la stazione. Il trenino magnetico era in partenza, lo presi al volo e arrivai a casa in un battibaleno.

Aprii il portone di casa e, con sorpresa, nell’androne trovai la mia valigia incellofanata di tutto punto e con un bigliettino attaccato con lo spago di carta riciclata al suo manico.
Lo staccai e lessi: “Benvenuto a Trapani, la città dell'accoglienza. Spero che il viaggio sia stato di suo gradimento e le auguriamo buona permanenza”.
Rimasi senza parole, insomma che deve dire un povero Cristo davanti a cotanta ricchezza?
 
Salii in casa e la trovai ordinata, fresca con l'odore di gelsomino che impregnava l’aria di candido.
Mi feci una doccia passai il pomeriggio a passeggiare tra le strade del centro, poi feci una apericena e soddisfatto, quasi felice, rientrai. Mi distesi sul divano e guardai la finestra con le persiane aperte. Faceva entrare un grecalino, fresco come una granita al limone; col suo soffio accarezzava le foglie e le faceva brillare riflettendo la luce della luna piena, parevano danzare come le lucciole al suono acuto dello spiffero dei flauti.

Mi sentii come su una dondola e man mano che gli occhi si chiudevano mi sentì accarezzato dalle dita affusolate e morbide delle mani di mia madre, che da bambino raccoglievano i miei riccioli, tirandoli lievemente alla fronte, facendomi aprire e socchiudere gli occhi dolcemente.
Una poesia, l’aria chi tira a Trapani ti fa addivintare accussì. insomma o vuoi o non vuoi, ii trasforma e con il pensiero colmo d’amore, mi addormentai.
Dormii tutta la notte come se non avessi mai dormito, prima.
 
La mattina successiva le mie narici vennero punzecchiate, come da saette, dall’odore di caffè che prepotente arrivava dalla cucina e e assieme a lui giungeva un suono di una cantilena, siciliana:
 
“Dumani è duminica e ci tagghiamu a testa a Minica
Minica non c’è
ci tagghiamu a testa o Re
u Re è malatu
ci tagghiamu a testa o surdatu
u surdatu è a fari a guerra
ci ‘ntappamu u culu ‘nterra".
 
Le filastrocche sono un suono viscerale ed ancestrale e un tradizionale passatempo. Oramai sono cadute nel dimenticatoio ma alcune sono arrivate a noi solo tramadate di generazioni in generazioni. Si cantavano per intrattenere i bimbi, per giocare insieme o semplicemente per canticchiare e creare un’atmosfera affettiva e di calore che faceva famiglia.
Oggi equivalgono a un bellissimo tuffo nel passato della tradizione siciliana e ricordano i nostri nonni e le persone care del passato. 
 
Stranito dalla cantilena di soprassalto urlai: "Chi c'e?"
 Imbarazzata e preoccupata, una voce solerte arrivò dalla cucina “Dutturi, dutturi John buongiorno. Io sugnu, Mariuccia, ma quanto mi dispiace che l’ho svegliata.
U sapia u sapia, beddra Madre, non dovevo farlo"

Mauriccia, - risposi - e da quanno addivintai Dutturi?
 
Mariuccia: “Da sempre, pi mia è dutturi picchi e allittrato, è fino ed è un uomo d’altri tempi”.
Aveva sentito il mio arrivo la sera prima e avendo le chiavi dell’appartamento entrò per preparare la colazione e soprattutto il caffè che piace a me.
Non lo aveva mai fatto e la cosa non mi dispiacque affatto. D’altronde i siciliani sono diametralmente all’opposto di noi anglosassoni, amano il prossimo ed è questo il vero motivo della loro ricchezza multi-culturale che equivale ed è espressa nella forza della loro ospitalità.
 
Mariuccia: "Dutturi John, mi deve scusare è che oggi è sabato ed è a festa di picciriddri chi finero a scola e siccome ho la gioia di di portarlo in un posto favoloso mi sono permessa di svegliarla presto, presto".
 
Era l’inizio di giugno e i bambini uscendo dalla scuola nell’ultimo giorno, felici e spensierati correvano dalle mamme e al loro focolare.
 
Mariuccia: "I bambini di età scolare primaria sono da sempre considerati il tesoro del futuro e la ricchezza della vita sociale. Sono un capitale con la C grande".
E aggiunge: "I problemi per un Paese nascono quando il saldo tra chi studia e quelli che non studiano è negativo e ne fanno un Paese povero".
Era una maestra Mariuccia, laureata in pedagogia e da anni in pensione.
 
Mariuccia poi continuò in siciliano : “Dutturi John, qui a Trapani c’è una grande scuola ed è tenuta in segreto, è una scuola speciale".
"E che scuola è?" Risposi.
Mariuccia continuò: "Molti anni fa dopo la seconda guerra mondiale giunse dal nord, forse dalla Polonia, una donna che aveva scampato le camere a gas e per ringraziare Dio, una volta messo piede sull’isola, giurò che avrebbe dedicato tutta la sua vita all’insegnamento. Ci insegnai pure io".
Era figlia dei Lebensborn, i “nidi dell’amore”. Quando arrivò a Trapani era giovane, teutonica, alta, con due occhi blu che il mare di Favignana si putia ammucciare.
Era così bella che all’epoca si raccontava che quando passeggiava nel centro storico di Trapani (e le cronache lo riportano), si assisteva ad un’impennata di ricoveri in ospedale per torcicollo spastico irreversibile e questo per i più fortunati, perchè per tutti gli altri che la guardavano più intensamente e con brutti pensieri,  c'era il ricovero per TSO alla cittadella della salute reparto psichiatria, da cui non uscivano più.
Arvedina Ruth, questo il suo nome, di padre tedesco che non aveva mai conosciuto nè incontrato (i più maligni vociferavano che era un colonnello della famigerata Schutz-Staffel) e di madre olandese, figlia della amore. Arvedina era il miracolo della genetica con fenotipo da Venere vivente.
 
Mariuccia: “Dutturi John allura, andiamo?”.
Risposi: "Sì, andiamo".
 
Passai il resto della giornata beatamente in ozio, ascoltai musica e lessi qualche riga di più libri, qua e là.
Poi scesi a fare due passi in centro e verso l'ora di pranzo, mi assittai in uno dei ristorantini a degustare il pescato del giorno.
Mi feci portare una bella frittura mista che per i palati deboli è sconsigliabile perchè si può svenire, soprattutto se accompagnata da un frizzantino fresco ed acido al punto giusto; era una di quelle fritture che, se apri la bocca, vedi le papille tuffarsi felici nel mare siciliano.

Scambiai due paroline, stritti stritti, con un gruppo di turiste sedute al tavole vicino, mentre sigillavo il pranzo con un marsalino invecchiato 20 anni. Pagai il conto e me ne andai a casa.
Mi misi sulla poltrona a gambe aperte, per dare sollievo alla pancia piena come un uovo, mentre dolcemente sentivo salire il calore del nettare liquido alla testa.
Come un carosello la stanza si mise a girare e pinsai "ch'è bello fregarsene ogni tanto" e subito dopo spuntò un sorriso da estasi.
Mi addormentai.
 
"John!!! John!!!", ripetuto a salve come i colpi di cannone sul Gianicolo. Non li contai ma dovevano essere almeno 21. Saltai sul divano quasi cadendo e pinsai: “Chi scoppiò la terza Guerra?” ma poi, ripresomi, realizzai che era la voce bomba di Mariuccia. Certi modi non possono mai essere mutati nè coscientemente corretti e soprattutto per lei che fu sposata per 60 anni con un colonnello dell’esercito. Ormai non aveva più speranza.
 
Nonostante queste sparate, però, Mariuccia era amabile ed amorevole e risposi, con santa pazienza: “Mariuccia non potevi aprire, santa donna?” .
Mariuccia: "Dutturi John mi scuiddavi i chiavi in cucina e poi in ogni caso sapendo chi vossia è a casa, avissi bussato u stesso. Amunì?"
Risposi: "".
Ci incamminammo con la sua macchina, una Renault R4 verde, e sebbene quasi alla soglia dei suoi meravigliosi ottant’anni, guidava sciolta e senza paure.
Uscimmo dalla città e ci dirigemmo verso la campagna circostante. Imbucata una strada sterrata bianca, che serpeggiava salendo verso una collina, lasciammo dietro di noi una scia di polverone che saliva dolcemente al cielo.
Arrivammo in un baglio arabo circondato da una vegetazione rigogliosa e ben curata. Gerani e bouganvillee fucsia pendevano dondolati dal vento, dai muri di cinta.
Un grande portone in legno, ad un lato un campanello di ferro e, a mo' di pendolo, una corda che pendeva dalla sua sommità. Tirammo la corda, più volte.
 
Aspettai in silenzio e ogni tanto guardavo Mariuccia che sorrideva come un sole a ferragosto.
Quando si sentì lo scricchiolio di ruggine prevenire dalla toppa. Si aprì, di poco, un’anta del portone. Spuntarono due canne di fucile. Un brivido percorse veloce la mia schiena e quasi svenni.
Turiddro Turiddro, Mariuccia Sugnu. Amici ti poitto”.
Lo ripetè più volte e poi aggiunse: “Non fare come al tuo solito, Turiddro, chi prima spari e poi chiedi cu è. U capisci o un nu capisci che accussì un ti pò arrispunnire nuddro? Come a fare cu Tia Turiddro, un cangi mai!!! Finero i tempi di Giuliano, u vo’ capire chi ora sì a scola?"
Come di incanto le canne si abbassarono e si ritirarono.
Si aprì l’anta del portone, tanto quanto basta per far passare una persona di media corporatura. Varcammo la soglia in marmo buciardata. Non vidi l’omino  e sto fatto mi tenne in ansia da collasso per 10 minuti fino a quando sentii un odore acre provenire dalla mia destra. Mi girai e scoprii che le canne mozze erano vicino alla mia guancia. Stavolta non ebbi scampo, svenni.
 
Turiddro si era nascosto dietro l’anta. Non si era mai fidato di nessuno, forse neanche di se stesso, nella vita. Era stato assunto dalla signora Arvedina, come guardiano del baglio. Era protettissima con lui, come in una fortezza.
 
Aprivo e socchiudevo gli occhi come quando ti risvegli da un lungo sonno.
Pensai: "Sto sognando o sono in paradiso?" Mi sentivo leggero. E continuai a speculare pensando che le canne del fucile sono più efficaci dei consigli o di mille psicoanalisti e conclusi che le canne, da fucile, comunque, sono più efficaci della ipnosi.
Aprii gli occhi e davanti a me una faccia di donna meravigliosa, una bellezza mai vista nè pensata. Mi parsi chi vitte a Maronna, ma poi pinsai che ero finito sicuramente in ospedale e che mi svegliassi dall’anestesia.
Mi presi di coraggio, anzi mi incoraggiò lei con il suo sorriso soave e suadente, raro come un fenicottero azzurro, ed aprii definitivamente gli occhi guardandomi intorno. Con sollievo appresi che non ero ricoverato e nemmeno avevo subito intervento chirurgico.
Sempre più vigile, continuai a guardarla quella donna bellissima. Mi convinsi che Stendhal avesse visto lei e non le opere sparse nel mondo, come diceva. La "sindrome di Stendhal" doveva essere stata causata da una bellissima donna al pari di colei che mi stava davanti. Mi convinsi così. E, in ogni caso, io avevo appena dato vita alla "sindrome del flamingo". Tanto ero estasiato per quella visione. Tornai nel mondo terreno grazie ad una voce familiare... 
 
Mariuccia: "Signora Arvedina ci presento u Dutturi John".

Arvedina era giovane. La immaginavo in età senile, pensai che doveva essere una highlander o che avesse scoperto in Sicilia il nettare della vita. Cosa molto probabile in questa terra.
Piacere” - rispose - "sono Arvedina Ruth, la nipote della famosa nonna”.
 
Meno male che mi anticipò, le stavo dicendo che mi aspettavo di trovare un'anziana nel baglio ed evitai così la mia solita gaffe.
Cercai di sollevare la testa dal cuscino ma sembrava appizzata col cemento, tanto la sentivo pesante.
Sorrisi per nascondere l'imbarazzo di trovarmi in queste condizioni davanti ad una Venere. Lei mi prese la mano destra e mi invitò a sollevarmi dal giaciglio accampato. Ero disteso su un letto di fieno nel bel mezzo della stalla dei cavalli.
Arvedina amava i cavalli, non so quanti ne avesse ma dovevano essere tanti vista la dimensione del locale. Mi guardavano attenti tutti, compreso i cavalli.
Mi alzai.
Arvedina: "Dottor John le faccio portare un bicchiere d'acqua fresca o una limonata?"
Optai per un bicchiere d'acqua anche se avrei preferito un caffè doppio, ma mi parse malo.
Arvedina con tono imperativo ma dolce: "Salvatore puoi portare dell'acqua fresca di pozzo?"
Si sentì una risposta rauca provenire da fuori: "Cettamente, arrivo subbito signora".
 
Manco passò un minuto che si aprì la porta e vidi comparire Turiddro. Il cuore si raggelò nuovamente. Riuscii, nonostante la botta emotiva, a dire con voce stridula, come se la laringe si fosse accartocciata: "Signorina Arvedina, mi scusi m'è passata la sete".
Mi venne in mente Plutarco che in "De capienda ex inimicis utilitate" suggerisce di trarre vantaggio dai nemici e perciò mi presi di coraggio e nonostante la nausea che mi suscitava, guardai Turiddo fisso negli occhi e dopo un po' lui distolse lo sguardo verso terra.
Aleggiò così una tregua nell'aria. Turiddo si rivolse alla Signora: "Altri comandi pi mia Signora?"
Arvedina: "No Salvatore puoi ritirarti".
 
Turiddo aveva i baffi arrotolati in punta e la barba nera corta e incolta. Sembrava un cactus messicano, secco da anni di siccità. Occhi neri affossati nelle orbite e sovrastati da sopracciglia folte e lunghe che nascondevano la fronte già abbondamente coperta da una coppola abbassata a mo' di "sghidda", che in gergo rappresenta uno sgardo di vigile attesa. Uno di quegli sguardi che comunica in linguaggio visivo siciliano: "ti vio e un ti peddo di vista", u capisti?".
Portava il gilet di velluto corduroy wale 2,5 di color beige da cui penzolava da uno dei suoi lati una catenella da orologio a cipolla agganciata ad uno dei bottoni dello smanicato. Indossava un camicia a quadrettoni le cui maniche arrotolate lasciavano vedere i gomiti. Al cinto dei pantaloni, una ventriera caricata di cartucce divideva il suo corpo tozzo che risultava curvo appena ne mostrava il profilo, nei movimenti goffi e lenti.
 
Arvedina: "La scuola è chiusa sono appena iniziate le vacanze estive. La visiteremo lo stesso appena lei sarà in grado di camminare, naturalmente".

Mi alzai di colpo per non mostrare ulteriore debolezza, riuscii a stare all'impiedi e mantenere una stabilità. Iniziammo la visita.
 
Una scuola come tutte le altre. Le classi, ben distribuite, si affacciavano dopo il porticato all'interno di un chiostro al cui centro zampillava una fontana.
Mentre camminavamo fianco a fianco e con passo lento Arvedina disse: "Mia nonna mi diceva sempre che non è la struttura fisica dell'edificio che fa una scuola ma il pensiero di chi insegna ed il metodo adottato. Dopo la seconda guerra mondiale i giovani siciliani che sono passati da questa scuola oggi sono dei grandi manager del Nord Europa e in America.
Hanno prodotto grandi progetti portatori di ricchezza, solidarietà e salute.
Alcuni di loro sono ritornati perchè il progetto scolastico prevede il rimpatrio dei cervelli affinchè possono continuare l'opera educativa.
Sono loro stessi insegnanti che a loro volta si impegnano, come in un ciclo perpetuo, la trasmissione degli stessi valori di cui loro sono portatori.
Altri maestri di volta in volta, dopo attenta valutazione, vengono selezionati ed inseriti nel pool docente, per migliorare e rinnovare l’offerta formativa.
Capirà bene, caro John, che il capitale intellettivo prodotto in questa scuola è inestimabile viene custodito gelosamente. Da sempre la cultura rappresenta il primo nemico per la realizzazione di società civili, basate sul lavoro e la progressione dell'individuo".
 
"E Turiddo?" le domandai

Arvedina mi guardò con un sorrisino e a bassa voce mi disse: "E' un ripetente cronico, infanzia difficile perchè brutalmente traumatizzato dalla famiglia per impedirgli di andare a scuola. Una famiglia difficile, la sua".
 
"E qua che ci fa?" continuai.
 
Arvedina: "Il male oscuro di cui anche la famiglia di Turiddo ha sofferto, va combattuto piano piano e senza traumatismi. Il metodo della scuola mira al ricambio generazionale, formando le coscienze".

Turiddo, appoggiato al portone con una spalla e la gamba destra leggermente piegata sull'altra, nel frattempo mi guardava da lontano sempre con sospetto. Non muovova un ciglio e non lo vidi mai sorridere.

Arvedina: "Per i giovani studenti Turiddo rappresenta il prototipo del siciliano senza scolarizzazione e ne rappresenta il modello negativo, Rappresenta il loro futuro, senza la scuola".
 
Ad un certo punto Turiddro esce la sua arma e puntandola, grazie a Dio verso il cielo, sparò i due colpi che aveva in canna.
Scappai così veloce che avrò coperto i cento metri in 5 secondi. Ma solo io fuggì ai colpi d'arma, pensando che voleva uccidermi.
Poi tutti mi chiamarono e si misero a sorridere.

Mariuccia: "John tranquillo, ritorni non succederà nulla"
Arvedina: "John ritorni la prego, Turiddo ha espresso il suo modo di approvazione e che da ora in avanti, per lui e nel suo modo di vedere il mondo, lei John, ha superato la prova di affidabilità e sicurezza. Si è accorto che standomi vicina per tutto questo tempo non ha osato rivolgermi neanche uno sguardo malizioso".
 
Mi imbarazzai. Mai mi era capitato di vedere una donna bellissima, senza lanciare uno sguardo e non fantasticare notti insonni. Pinsai: "Che fortuna che ho avuto oggi".
 
Turiddo si mise a ridere scompisciandosi. Realizzai che si era divertito incutendomi paura per tenermi lontano dalla Signora Arvedina. Istinto ancestrale di maschilismo protettivo. Ma non potevo immaginare di essere sotto uno stress-test di un siciliano arcaico.
Con sollievo e sospirando ci facemmo una risata collettiva. Pure i cavalli si misero a ridere. 
 
Poco dopo ci salutammo.
 
Mentre ritornavo a casa con Mariuccia alla guida sorridente, riflettei sul fatto
che i siciliani che sono cresciuti e formati in Sicilia, in questa scuola segreta, sono quelli che si sono svincolati dalla logica territoriale. Erano quello che, dopo la formazione, erano emigrati portando il genio nel mondo ove il contesto sociale e progredito rappresenta il terreno di coltura per far crescere le loro idee e i loro progetti.
Dopo un certo periodo di tempo, questi cervelli nati siculi e formati altrove, avvertono la necessità di ritornare nella loro terra natia per insegnare alle giovani generazioni e per colmare la ferita insanabile delle coscienza creatasi a fine ottocento, epoca questa estremamente trauamtica per il Meridione.

La scuola che ebbi la fortuna di visitare era una novità assoluta per me che non potevo minimante immaginare o supporre o vedere durante i miei voli.

Oggi ho imparato che il segreto, che è la filosofia per antonomasia della Sicilia, nasconde un seme molto rigoglioso e prospero per il futuro. Ma nonostante questa scoperta ero combattuto se far pubblicare questo articolo o no, perchè non volevo violare la sacralità di questo capolavoro pedagogico.

Guardai Mariuccia felice e orgogliosa di avermi portato in uno dei luoghi a lei caro e segreto. Sorrisi e pensai di rischiare perchè a Trapani non conviene mai fermarsi alle appararenze. Ho reputato, quindi, di raccontare dell'esistenza di questa scuola speciale. Ma non vi dirò dove si trova. Affido alla vostra voglia di progresso culturale e sociale la ricerca del luogo dove si trova. Consentitemi un suggerimento, però. Non serve cercarla in maniera forsennata o con affanno, la scuola la si trova quasi dappertutto, in questa bellissima terra di Sicilia: basta guardare il Turiddo che avete conosciuto e ricordarvi che, Turiddo, lo possiamo diventare noi stessi o, cosa ancora peggiore, i nostri figli. Basta voler scegliere che tipo di pesantezza vogliamo imbracciare: la lupara o i libri. In entrambi i casi avremo un peso da sostenere ma la lupara ci ancorerà a terra... i libri, invece, saranno il propellente per viaggiare liberi.
 
Alla Prossima.
Il vostro John Flamingo.