Il violino

Il violino

di Jo March

Ho più di trecento anni e ancora profumo di foreste d’aceri e di cere preziose.

Il mio creatore mi ha costruito con mani sapienti, mi ha accarezzato, piegato al suo volere, dandomi forme morbide, mi ha lustrato e rifinito ed io, ancora, sprigiono caldi riflessi di legno nuovo.

Io sono uno Stradivari: sono magico!

Per lungo tempo ho dormito, protetto in una custodia, rivestita di morbido velluto; chi mi ha ammirato, spesso, non ha avuto l’ardire di carezzare il mio corpo, solo pochi hanno avuto il privilegio o, forse, la sfrontatezza, di sfiorare con l’archetto le mie corde. Hanno creduto che fosse la loro mano a trarre, da me, suoni divini. Hanno creduto d’essere un genio ed io uno strumento del loro genio.

Follia!

Io sono uno Stradivari, dirigo io la melodia: trillo, singhiozzo, emoziono, rattristo con lunghi lamenti, rallegro con tocchi leggeri e sincopati.

Solo Lui, il mio Signore, mi ha abbracciato, ed io sono stato suo, posseduto dal suo amore, dalla sua dolcezza, dal suo furore, dalla sua magia. Avvinto al suo corpo esile, sconvolto e malato, avvertivo la potenza della sua mano, la tempestosa malìa del suo genio. Vibravo, sotto gli assalti dell’archetto, il suo respiro febbricitante impregnava il mio corpo, i suoi lunghi capelli scuri, volteggiavano, si avvolgevano al mio riccio, la sua voce bassa m’incitava ed eccitava: “Vai, ancora, di più…di più”, finché le mie corde saltavano e il ‘sol’, unica nota, restava sospeso nell’aria, stridendo, e lasciandoci entrambi senza fiato, stremati.

Mi ha trascinato con sé, per il mondo, dalle prigioni alle regge, solo tre colori ci accompagnavano: il nero dei suoi abiti, il bianco del suo pallore, il rosso della nostra passione. Trascorrevamo veloci mille strade, cento città, lasciandoci alle spalle una scia di oscuri tremori. Dicevano che il diavolo viaggiasse con noi. Poi l’oblio e le sue mani inerti.

Sul palco dei teatri più fastosi d’Europa, nella penombra delle platee, nella luce diffusa dei palchi, io, ancora, anche se raramente, mi esibisco e, nel silenzio religioso, da solo, emetto note inarrivabili,  imprigiono i cuori,  catturo gli animi di chi ascolta. E, a lui, solo a lui, a Paganini, offro quelle anime, affinché, ovunque si trovi adesso, se ne compiaccia. Il mio è il suono dell’anima, suono malinconico e struggente, che lacera i cuori e dilata i respiri di chi ascolta.

Quando, Infine, taccio e le luci si accendono, la folla degli spettatori si sveglia dall’incantesimo e tutto il teatro, dalle fondamenta, esplode in un applauso lunghissimo.

Io sono il re e, lui, il violinista, il mio servo, e non lo sa.