LA MEMORIA, I RICORDI… E MIO PADRE (PARTE SECONDA)

Omaggio a un ottantenne, parte della storia di questo territorio

LA MEMORIA, I RICORDI… E MIO PADRE (PARTE SECONDA)

PARTE SECONDA: LA MEMORIA, I RICORDI… E MIO PADRE. 
(leggi qui la prima parte)

 

In che senso, scusi? Quella frase morta in gola, domata a forza, tacitata nelle viscere più profonde, nascondeva al suo interno l’urgenza di una risposta ad una domanda che però non avevo mai posto. Non ad alta voce almeno! Mentre i miei pensieri si rincorrevano nel balenare di un lampo: Ho capito bene?  Che ha detto questo tipo qua? Che significa che il custode sarà andato a fare un bagno? Che, uno lascia il posto di lavoro perché sente caldo? E per di più un museo, un’istituzione permanente per definizione, l’emblema della storia, della cultura, del sapere… Come si poteva in maniera così insolente tradire le aspettative di turisti e viandanti. Come si poteva, solo lontanamente immaginare di partorire, un’idea così folle e strampalata???

Seguendo, sempre in silenzio, il filo del mio ragionamento, cercavo nella mia testa e senza nulla far trasparire al di là dei miei pensieri, di dare un senso a quello che avevo appena sentito. E mentre il tempo passava, l’uomo dai capelli bianchi continuava bonariamente a fissarmi. Era chiaro che non immaginava neanche lontanamente, l’universo di riflessioni, congetture ed emozioni che aveva scatenato in me con quelle due semplici frasi: “Il custode stamattina era lì... Con questo caldo avrà deciso di andarsene al mare, a fare un bagno”. Del resto, aveva semplicemente risposto alla mia domanda spiegandomi perché, secondo lui, il Museo della Memoria poteva essere chiuso quella domenica pomeriggio.

Col sorriso ebete ancora stampato in volto, immobile come un tronco di legno davanti all’uomo tanto gentile che si era limitato a fornire seraficamente le indicazioni richieste, cerco di riavermi dalle mie elucubrazioni. Di ridare vita al mio corpo e alla mia immagine fissata come un ologramma nell’aere infuocato di un universo parallelo dove spazio e tempo non esistono.

Dovevo uscire da quella situazione e in fretta. Il piglio curioso sul volto di quel ‘giovanotto’ gentile di mezza età cominciava a cambiare forma. E non ero sicura che fosse un buon segno per me. “Guardi veniamo apposta da Trapani” comincio a dire con fare incerto all’inizio. E poi: “Il museo avrebbe dovuto essere aperto” farfuglio. Prendo tempo per darmi tempo.

LA MEMORIA, I RICORDI… E MIO PADRE (PARTE SECONDA)

Ed eccomi tornata, pronta a spiegare il perché del nostro viaggio. Ma soprattutto a capire perché, superato di oltre un decennio il nuovo millennio, (quello dei nativi digitali, degli internauti e delle realtà virtuali e dei collegamenti planetari in un batter di ciglia) io fossi ancora la, al centro di una piazza semideserta, nel bel mezzo di un pomeriggio rovente di piena estate, a chiedere informazioni a un passante.

Ormai tornata padrona di me stessa, spiego al mio inconsapevole Cicerone, il perché del nostro viaggio e la nostra mission. Racconto di mio padre e della sua storia. (Nessun cenno alla lasagna, sono certa). Dell’urgenza di dare vita e forma a un racconto di altri. Di vedere e toccare con mano un ricordo. L’istantanea di un momento perso nel tempo che rinasce e vive sotto gli occhi di chi lo osserva. E lui capisce.

Ora era chiaro perché, tra tutti, avevo scelto proprio lui per stipulare il mio patto tacito con la memoria.

In qualche modo affascinato dalla storia che aveva appena ascoltato, l’uomo dal piglio curioso decide di darmi una mano. Mi consiglia di girare a destra, oltre l’ingresso del Municipio e di infilarmi nel cancelletto secondario che porta al retro del Museo. “C’è un baretto lì dietro – mi dice -. Hanno la chiave per aprire la porta d’ingresso. Parli con loro e spieghi cosa le serve, vedrà che l’aiuteranno”.

Ormai sopraffatta dagli eventi e rassegnata a quella realtà che nessuna altra spiegazione al mondo poteva avere se non la sua, saluto il mio illuminato interlocutore, ringrazio e torno dai miei. Che nel frattempo erano rimasti in disparte a guardare e ad aspettare l’evoluzione delle mie trattative.

Una volta raggiunti, riporto semplicemente i fatti, senza dar tempo a nessuno di riflettere, così da evitare che anche loro vivessero il corto circuito in cui ero incappata io poco prima. E indico il cancelletto all’ingresso secondario come nostra unica via di scampo.

E’ mio marito (Angelo) che parte spedito stavolta, deciso a dare un senso a quella traversata e a quella giornata. Io e i miei ci incamminiamo leggeri dietro di lui, osservando i preparativi di un concerto che si sarebbe tenuto quella sera in piazza, scrutando ora a destra ora a manca, quella singolare cittadina. Già dall’arrivo in paese qualcosa mi aveva ammaliato, ma non ero ancora riuscita a dare un contorno a quella sensazione.

Attraversammo anche noi il cancelletto secondario e l’arco che si parava appresso. Davanti, un ampio atrio bianco, alcuni vialetti in pietra e diverse aiuole. Un giardino insomma. A destra il baretto che ci avevano indicato e dei tavolini con le sedie sopra. Su tutto una copiosa coltre di polvere, sospinta dallo Scirocco di quell’assolato pomeriggio estivo. E le foglie che si rincorrevano in vortici tanto virtuosi quanto fastidiosi.

Mio padre era stranamente quieto. Aveva già raggiunto Angelo ed era alle sue calcagna, sia chiaro. Ma non era in allerta come suo solito, non era in tensione pronto ad agire. Era evidente che si stava godendo il viaggio, qualunque fosse stato l’esito di quell’avventura. E che, cosa ancora meno usuale per lui, si fidava dei suoi compagni.

Mentre padre e marito erano intenti a parlare con gli uomini all’interno del chioschetto, noto un ragazzo con un tubo di gomma in mano che spruzzava acqua sul pavimento infuocato dal sole, cercando di domare gli sbuffi di polvere. E come ipnotizzata dagli schizzi d’acqua che, volteggiando baldanzosi nell’aria, venivano trascinati via dalle folate di vento, comincio a riordinare alcuni frammenti che piano piano si affacciavano alla mente. Li avevo ignorati fino a quel momento perché c’era un problema da risolvere, altro a cui pensare insomma. Ora però, mentre attendevo di capire quale fine meritasse quella storia, si riaffacciavano prepotenti alla memoria. E d’un tratto realizzo dove mi trovavo!!! Quelli erano i giardini del Gattopardo. Gli stessi dove Tomasi di Lampedusa trascorreva estati felici durante la sua infanzia. Ecco perché quel posto mi era così caro e familiare.

Emozionata dalla scoperta appena fatta, vago con lo sguardo torno torno in cerca di mio marito. Sono impaziente di condividere con lui quella rivelazione, quell’emozione. Certa che lui avrebbe capito. Quando lo vedo uscire dal baretto col sorriso trionfale di chi ha appena vinto qualcosa. In mano un mazzo di chiavi. Stavo per aprire bocca e raccontare, che mi raggiunge e dice ad alta voce: “Andiamo”. “Come andiamo, dove”, rispondo di rimando. Dietro di lui mio padre con l’espressione ancora più trionfante della sua. E cominciano a raccontare che avevano parlato con quell’uomo laggiù, che avevano chiesto del perché il museo fosse chiuso e raccontato della nostra piccola avventura.

E avevano scoperto che quello era un politico, uno che contava a Santa Margherita Belice e che le chiavi del museo lui le aveva. E che se dovevamo vedere solo una foto potevamo entrare.

Incredula come se mi si fosse parato davanti Babbo Natale in carne ed ossa, li seguo in automatico, senza riuscire a proferire parola. Davanti a noi un tizio che riprede il mazzo di chiavi per aprire l’ingresso posteriore del museo della Memoria, a pochi passi dal baretto e dai tavolini che stavano sistemando per la serata.

Trovare la foto che ritraeva papà mezzo secolo prima fu facile. Al centro di un pannello, in bianco e nero, mano nella mano con i terremotati del ’68. Dietro di loro, in alto, un cartello con su scritto “Case”.

Rientrammo a Santa Ninfa che era l’imbrunire. In auto, nessuno parlò molto. Era stata una giornata impegnativa ed eravamo stanchi e spossati. Ognuno di noi però, a suo modo, era felice. Avevamo vissuto una storia, provato emozioni, assaporato i ricordi. E scritto un nuovo capitolo di un presente, che presto sarebbe diventato passato. E che qualcuno, in futuro, avrebbe potuto rievocare in un RICORDO.