In ricordo di Nino Galofaro
Stamattina, al suo funerale, tante lacrime
di Nicola Capizzi
Perugia, 23 novembre. Un normale lunedì di novembre con un autunno mite, che continua trascinarsi tra giornate di sole e foglie che coprono le strade in un tappeto screziato di colori caldi. Così, normalmente, inizia la mia giornata. Normalmente preparo il caffè (rigorosamente deca dopo la semi svolta salutista), consueta telefonata a mamma per lenire la mia apprensione e poi Radio 1 o Radio Capital a seconda del mood della giornata. Normalmente controllo il telefono per vedere se ci sono messaggi e, sempre normalmente, trovo puntuale quello di Peppe che, con fiero e virile senso d’appartenenza siculo, mi riferisce delle meravigliose giornate di sole a Trapani e che “’N Trapane c’è l’America e che al nordo chiove sempre” (giuro, ho provato più volte a spigargli che Perugia è al centro ma niente, oltre Messina è nordo e chiove sempre).
Ore 9 e 56. Sono in macchina e sto per arrivare a lavoro. Arriva un messaggio. Vabbè ci guardo quando arrivo. Poi una sorta di presentimento, non saprei. Approfitto del semaforo rosso e butto lo sguardo sullo schermo del telefono. Dall’anteprima vedo un numero sconosciuto. Il brutto presentimento diventa più definito, non so spiegare meglio. Aspetto il verde e accosto. Prendo il telefono, lo sblocco. Dalla foto del contatto riconosco subito Alberto. Alberto? Mi chiedo. Il presentimento assume le fattezze dell’ansia. Poi paura. Alzo la testa e serro gli occhi. Speriamo di no ti prego. Ti prego fai che non sia vero. Fai che non sia quello. Riapro gli occhi: “non so se hai saputo. Nino se n’è andato stamattina”. E’ successo. Alla fine è successo. Ninuzzo è morto. Lascio cadere il telefono e mi porto le mani sul viso. Esplodo nel pianto e sprofondo nel dolore. Sono affranto. Piango e piango. Ho i conati. Tremo. Mi sento sconvolto. Cerco un fazzoletto per asciugarmi, frugo in giro ma niente. Non ci si capisce un cazzo in questa minchia di macchina, urlo. Poi tiro un cazzotto sul cruscotto, un altro e un altro ancora. Mi fermo. No, non serve a niente prendersela con le cose. Respiro forte e ricomincio a piangere.
Poi, a mano a mano, il dolore inizia a diluirsi nelle lacrime che stillano copiose. Mi asciugo con le mani. Nino non avrebbe voluto, dico a me stesso. Mi sembra di sentirlo: che fai piangi Nicoluzzo mio? E c’è bisogno? Mi dispiace farti piangere. Tiro indietro il sedile e stendo gambe e braccia. Sento che nel mio petto il cuore pian piano smette di rullare. Mi concedo una tregua. Tiro la testa indietro,
guardo verso l’alto, oltre il parabrezza. Davanti a me un albero che lascia volare le sue foglie e dietro un azzurro nitido a fare da sfondo. Tu ci avresti fato una foto Ninuzzo mio, ne sono certo.
Le foglie continuano a cadere e i ricordi cominciano a sbocciare. Sul mio viso spunta un mezzo sorriso. Poi il sorriso si allarga, come il cielo dopo una tempesta. Tra i tanti ricordi ne affiora uno limpidamente. Pensando a quella volta che comprai la mia prima reflex e corsi subito al negozio per mostrartela (si, al negozio. Fotolux non soltanto un negozio; per noi era “il negozio”). Entrai dirompente che a momenti buttavo giù la porta di ingresso. Ricordo perfettamente che misi sul bancone la borsa con macchina dentro. Ero emozionato. Era la mia prima reflex. Una scadentissima quanto tamarissima Nikon analogica color giallo oro, corredata da un altrettanto scadentissimo 70-300. Munnizza allo stato puro per un professionista. Una Maserati per me che ero un apprendista.
Dai Nino aprila, dimmi che ne pensi. Ricordo bene; hai aperto la borsa lentamente (anch’essa giallo oro in coordinato con la macchina; credetemi, un si putia taliare). Ci ha sbirciato dentro e con il tuo indimenticabile sorriso mi hai detto: e bravo Nicoluzzo, hai deciso di fare sul serio allora. Poi ti sei girato, hai preso dallo scaffale una Fuji 200 da 36 e mi hai caricato la macchina: allora ragazzo, pellicola e stampa te la offre la ditta; buon divertimento!
Eri così Nino mio, core di buttana. Sempre lesto a dare, mai pronto a ricevere.
Hai trasmesso la passione per la foto a tanti ragazzi. Fotolux non era soltanto “il negozio”. Fotolux era un club. Fotolux era fucina di giovani artisti. Fotolux era una famiglia. E mi fa piacere raccontare, con un pizzico di orgoglio (si Ninuzzo mio, consentimelo, un pizzico di orgoglio) di averci anche lavorato, se pur per un brevissimo periodo, al negozio. Mi sentivo importante. Stare dietro il bancone mi dava un tono. Ricordo con immenso piacere quando Alberto mi spiegava come pulire le macchine a fine giornata. Un maestro severo ma giusto. Tu totalmente all’opposto di lui. Facevo danni e non ti incazzavi mai. Poi Giusy e la sua pazienza, che bilanciava il tutto. E poi ancora tutti gli altri: Alberto, Maurizio, Bob, Maria Pia, Giacomino, Clemente, Enzo, Francesco e tanti altri.
E ancora ricordo: La tua casa a Lido Valderice, la sauna, i gavettoni, le escursioni fotografiche alle saline, le pizze a casa tua, il panino alla Nino Galofaro, il panino per il tuo cane Max, la tua Rover, il tuo Santafè, le Acque calde di notte, il negozio dove lavoravi fino a tarda sera che per noi era oasi felice in una città arida come Trapani, i caffè a ruota, le sigarette che offrivi a tutti (a volte regalavi interi pacchetti), l’amore per gli animali e soprattuto, il tuo spirito libero, libero, libero!
Tutte le volte che ho perso qualcuno a me caro ho provato profonda rabbia. Rabbia per la morte. Rabbia perché la morte delle persone per bene l’ho sempre vissuta come un’ingiustizia. Rabbia perché alla morte non c’è rimedio.
Questa volta no però, caro Nino. Anzi, caro Ninuzzo (perché a me piaceva chiamarti Ninuzzo e a te chiamarmi Nicoluzzo).
Niente rabbia questa volta, perché tu eri amore. Amore per la natura, amore per gli animali, amore per le persone.
Te ne sei andato così, in una giornata di caldo autunno. E lo hai fatto a modo tuo, con messaggio meraviglioso.
Ne cito una parte:
Cercate di dedicare parte del vostro tempo alla famiglia e agli amici, cercate sempre di dialogare, il dialogo aiuta molto anche se a volte il pensare di parlare di certi argomenti o con certe persone possa fare male, vi prego di non distruggere un rapporto per motivi futili come spesso accade.
Grazie di cuore per tutto quello che mi avete dato, per le belle parole e per i bei gesti che ho ricevuto, posso veramente affermare che me ne vado portando con me dei ricordi meravigliosi, infinitamente grazie.
Antonino Galofaro.
La nostra amica Maria Pia, persona sempre profonda e mai banale, ha scritto che quando vogliamo ricordare qualcuno, piantiamo un albero. Ad Haiti per esempio, ce n'è uno per una persona straordinaria che rivedremo prima o poi, chissà come e chissà dove. Perché l'amicizia è un albero da piantare.
Appena mi sarà possibile tornare in Sicilia pianterò un albero nel mio giardino di Bonagia. Lo farò insieme alla mia piccola Clara e un giorno, quando sarà il momento, le spiegherò che quel albero servirà a ricordare un amico che non vedrà mai, ma che conoscerà attraverso i mie racconti. Le dirò che le persone, quelle buone, sono come gli alberi:
ad un certo punto perdono le foglie e sembra che sia arrivata la fine, ma che le foglie spuntano di nuovo. E l’albero continua a vivere. Ed è questo il grande miracolo della vita: le persone che hanno lasciato amore dentro di noi, vivranno per sempre.
Ciao Nino, ovunque tu sia, ovunque tu vada e qualsiasi cosa sia diventato.